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Dibattito

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Economia informale e dintorni: appunti per una lettura critica
di Marco Coseschi

Comunismo Libertario numero 40 aprile 1999


Già altre volte ci siamo interrogati sulle motivazioni che spingono centinaia di compagni e compagne verso una pratica,

(o al semplice interesse), tesa ad elaborare possibili modalità sperimentali di produzione e scambio presumibilmente

esterni, in una qualche maniera, al mercato delle merci capitaliste, o usando una definizione a loro cara, "esterne ad un

meccanismo di scambio che obbedisca esclusivamente al puro calcolo economico".

Lo abbiamo fatto e lo facciamo principalmente perché ci sentiamo interni ad un ambito di riflessione generale che c'induce a contribuire,

anche con posizioni critiche, al dibattito in corso. Già in altri momenti, sopra questo giornale, abbiamo tentato di evidenziare come tali

pratiche d'economia cosiddetta informale, assumessero, di fatto, al di là del fattore soggettivo, carattere sia di marginalità, nel migliore

dei casi, sia di subalternità al modello economico dominante, agendo come supplenza delle politiche di riduzione del deficit statale. Ma non

solo: una delle chiavi di interpretazione, che ponevamo all'attenzione dei compagni, era che il comparire di questo tipo di elaborazioni

doveva essere messo in relazione con la fase storica che il movimento dei lavoratori viveva, cioè la fase della sconfitta, con la conseguente

difficoltà di individuazione di un'ipotesi di rilancio del conflitto capitale lavoro.

Non è casuale, infatti, che i primi abbozzi di costruzione di spazi d'economia alternativa prendano forma durante gli anni '80. Gli anni della

sconfitta conclamata, gli anni che formalmente chiudono un decennio di lotte, laddove le condizioni oggettive del conflitto tra capitale e lavoro

potevano far supporre uno sviluppo del processo storico che si caratterizzasse attraverso una radicale rottura dei rapporti di produzione

capitalistici. Gli anni '80 irrompono sulla scena disperdendo tutto quel patrimonio di pratiche e d'esperienze sedimentate nel decennio

precedente, alimentando interessanti (quanto insufficienti), aggregazioni di resistenzialismo attorno al disomogeneo arcipelago dei centri sociali.

Aggregazioni eclettiche, dove la componente operaista, la più politicizzata e la più diretta erede del movimento del '77, perde gradualmente

centralità a favore di un più generico antagonismo comportamentale, che assume lo sbocco immediato come perno della propria progettualità.

La crisi della politica e della militanza, l'indisponibilità ad un lavoro che contempli tempi lunghi e non grandi gratificazioni, concorrono

sicuramente alla formulazione di nuove pratiche sostanzialmente caratterizzate dalla possibilità di realizzo, qui ed ora, d'alcuni aspetti legati

all'utopia. Pratiche queste che andranno ben presto radicandosi col sostegno di una diffusa letteratura di sinistra, che intravedeva

nell'apparente mutazione delle condizioni oggettive della produzione e della divisione internazionale del lavoro, un processo inarrestabile

d'esaurimento del conflitto storico tra capitale e lavoro.

L'importanza di pratiche sindacali e di quelle orientate più specificamente alla costruzione di soggettività politiche orientate omogeneamente,

viene minimizzata se non totalmente rifiutata. L'assunzione del cosiddetto nuovo paradigma post fordista, all'interno del quale tutta una

serie di riferimenti storici del conflitto di classe vengono sostanzialmente cancellati con estrema leggerezza, fa' da corollario alla formulazione

di un impianto teorico che ben presto si qualificherà per un recupero del gradualismo dell'azione politica scadendo, suo malgrado, nel terreno

possibilista di stampo neo socialdemocratico. Al di là, infatti, di posizioni apparentemente radicali, si riaffaccia il concetto di poter sperimentare,

all'interno del sistema economico dominante, nuovi stili di vita capaci di poter determinare aree di produzione e di scambio che eludono quelli

codificati dal comando capitalista. Ovvero, la prospettiva generale di trasformazione sociale viene in qualche modo relegata in secondo piano,

premendo verso la realizzazione, qui ed ora, di relazioni sociali in totale alterità da quelle storicamente determinate.

L'individuo astratto dai rapporti di produzione è ricollocato al centro della progettualità politica e la libertà individuale non viene più messa in

correlazione con le libertà collettive. Si costruiscono ambiti in cui i rapporti tra singoli, come in ogni esperienza comunitaria, assumono priorità e

finalità obiettive. Come dice G. Ragozzino in un articolo sulle banche del tempo nel numero cinque di Carta: " quello della banca del tempo è certo

un progetto leggero che coinvolge un numero ristretto di persone, 3000 in tutto nella città di Roma.... ma è un segnale molto preciso di come si

può stare insieme dandosi una mano, allargando le amicizie, trasformare i propri bisogni in opportunità per gli altri." Niente di male sulla legittimità

di ognuno di noi al ricercare relazioni in cui il sentirsi utili ed una certa ricerca del godimento, diventino aspetti fondanti della nostra esistenza.

La nostra derivazione epicurea c'induce a ciò. Altra cosa è lo stabilire se qualsiasi elemento di gratificazione esistenziale diventi concreto

comportamento politico capace di trasformare l'esistente. Qualche perplessità, a dire il vero si pone, vista la marginalità che queste

esperienze d'economia informale sembrano determinare. Lo stesso meccanismo che permette lo scambio, che sostanzialmente mira

all'eliminazione formale dell'equivalente del valore, ossia la forma denaro, non pare assolutamente emanciparsi dai parametri mercantili

capitalistici basati sul tempo di lavoro, in quanto è sempre lo stesso tempo di lavoro, più o meno astratto, a rimanere come riferimento

per qualsiasi pratica di baratto nelle economie informali.

E' il denaro nella sua forma astratta che viene minimizzato, e non tanto l'equivalente che questo semplicemente rappresenta, arrivando

addirittura in alcune esperienze (vedi sempre su Carta l'articolo su Manchester, pag. 6), a coniare nuove tipologie di monete che

comunque mantengono una loro convertibilità, nei territori di circolazione, con le monete ufficiali. Anche in queste economie marginali

non è il valore d'uso di per sé a permettere lo scambio, ma il tempo di lavoro contenuto in ogni valore d'uso permette il confronto tra i

diversi prodotti o servizi. Quasi un ritorno alle origini della società mercantile, dove gli equivalenti non erano obbligatoriamente espressi

in carta moneta, in alcune culture potevano essere anche delle conchiglie, ma che in ogni caso rappresentavano, per le quantità possedute,

una diversa collocazione nella gerarchia sociale. Niente di veramente originale quindi se non, come sempre dice Ragozzino su Carta, la

gratificazione, per chi riesce a gratificarsi, di una dimensione dove quel che più conta è l'abilità, l'amicizia e la disponibilità a fare e a

scambiare. Un ultimo aspetto su cui ci preme spendere due parole è quello relativo al facile degenerare di questo tipo d'esperienze sul terreno

della supplenza di un mercato dei bisogni sociali liberato dalla presenza capitalista, in quanto non funzionale per gli attuali livelli di competitività.

Non è casuale, infatti, che questo tipo di sperimentazioni, là dove siano in grado di assumere un peso superiore all'ordinario,

trovino sempre più spazio nei bilanci di varie amministrazioni locali o di istituti di credito, come economie di sostegno sia nei

processi territoriali di deindustrializzazione, sia nei processi di esternalizzazione di servizi sociali, in una fase in cui lo stato sociale si

ritrae dall'investimento improduttivo per sostenere la competitività del sistema industriale nel mercato internazionale.

Esiste già un'abbondante letteratura sui processi degenerativi del terzo settore, del cosiddetto no profit, cui gli stessi apologeti,

(vedi M..Revelli), non possono più nascondere, letteratura che è importante ribadire per tentare di rompere un incanto a cui

tanti compagni sembrano sottostare. E' lo stesso Carta, che si qualifica apertamente come sostegno culturale a questo tipo

d'esperienze sperimentali, a darci un piccolo ma significativo spaccato di una realtà attraversata da mille contraddizioni. Nel citare

l'esperienza di alcune banche etiche inglesi ed irlandesi, si ammette fuori dai denti, che non esiste nessuna capacità di controllo

sugli investimenti che queste praticano da parte della comunità che le ha generate; in alcuni casi è stato verificato come la

richiesta di credito a queste banche etiche risulti essere anche più costosa di quella richiesta a banche normali. Buffa realtà

sopra cui dovrebbero riflettere in tanti, specialmente gli "ideatori", che pensavano di poter rivoluzionare il concetto ufficiale di

banca.